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Ciucci (ri)belli 25 Novembre 2020

Un Contastorie al telefono per bimbi dai 3 agli 8 anni

Contastorie al telefono

Pronto mi racconti una storia? Potrebbe cominciare proprio così una delle prossime telefonate dei vostri bimbi. Proprio come le storie al telefono inventate da Gianni Rodari. Dall’altra parte risponderà il Contastorie: Marco Bertarini, narratore con una lunga esperienza teatrale.

E’ il nuovo progetto a distanza messo a punto dalle biblioteche del circondario imolese, temporaneamente chiuse al pubblico, ma desiderose di restare in contatto con i più piccoli, bimbi dai 3 agli 8 anni.

Il genitore dovrà contattare telefonicamente o per email la biblioteca presso cui è iscritto il proprio figlio. Sarà poi richiamato dal Contastorie.

Le biblioteche
che aderiscono al progetto:

Un Contastorie al telefono per bimbi dai 3 agli 8 anni
Cronaca 15 Maggio 2019

Ha chiuso i battenti a Imola l'edicola Centrale, il saluto dei gestori Piero Rebeggiani e Franca Manara

«Ma è vero che chiudete oggi? Proprio per sempre?», «Non avevo il coraggio di venire a salutarvi…», «Ci mancherete, ma anche noi vi mancheremo…». Sono solo alcuni dei commenti rubati ai clienti che lo scorso 30 aprile sono passati all’edicola Centrale di via Mazzini nel suo ultimo giorno di apertura: chi per acquistare una rivista, qualche romanzo tascabile o una raccolta di enigmistica; chi, appositamente, per salutare Piero Rebeggiani e la cognata Franca Manara, che dal 1986 gestivano la storica rivendita di giornali. Una nuova serranda, l’ennesima, si è infatti abbassata in centro storico, questa volta proprio sotto l’orologio, fermo ormai da mesi. Due immagini emblematiche che rattristano.

«E’ stato bello e l’abbiamo sempre detto – dice Franca -. Il giorno esatto del nostro inizio è stato il 15 gennaio 1986, quando le sorelle Adele e Bruna Corazza ci hanno passato il testimone e noi con grande piacere, volontà e impegno abbiamo fatto del nostro meglio per dare ai nostri clienti tutta l’attenzione, la gentilezza e la disponibilità per servirli e fare in modo che si ricordassero di noi con affetto. Speriamo e crediamo di esserci riusciti. Ringraziamo tutti per la fedeltà dimostrata in questi anni».

Anche Piero ricorda gli esordi, ma senza nostalgia e con l’immancabile battuta pronta. «Prima facevo l’operaio turnista in una filiale della Benati. Cominciavo a lavorare alle 4 del mattino, per cui quando abbiamo deciso di buttarci a fare i giornalai ho migliorato la mia condizione: cominciavo a lavorare alle 5. E’ stata una scelta molto piacevole, mi sono sempre divertito» dice ridendo di gusto. Accanto al vulcanico Piero, in questi anni c’è stata la cognata Franca, nel ruolo, ammette lei stessa, di «mediatrice», che 33 anni or sono ha lasciato un lavoro da dipendente in una fabbrica di lampadari. Ai due ha dato spesso una mano il marito di Franca, Oriano Carmonini, poi, circa 8 anni fa, si è aggiunta la moglie di Piero, Renata, per tutti Lorena.

La vendita di giornali all’ombra dell’orologio esisteva, però, da quasi un secolo. All’ultima gestione, per ora, non subentrerà nessuno e i locali, di proprietà del Comune, resteranno vuoti. «Per quasi tre anni ho provato a vendere l’attività – riassume Piero -. Sono venuti in tanti, ma poi non se ne è fatto niente. Il contratto di affitto era scaduto alla fine del 2017 ed era stato rinnovato con una proroga verbale che in teoria durava fino alla fine del 2020. L’anno scorso, per la verità, il canone d’affitto era anche diminuito. Ma non si sapeva se e quando il Comune avrebbe fatto un nuovo bando per la concessione dei locali e questo ha scoraggiato chi si era fatto avanti per rilevare l’attività. Avrei potuto continuare, sono già in pensione da due anni, ma devo anche operarmi alle ginocchia e quindi ho preferito chiudere». (lo.mi.)

L”articolo completo è su «sabato sera» del 9 maggio

Nella foto i due gestori dell”edicola che ha abbassato la saracinesca il 30 aprile

Ha chiuso i battenti a Imola l'edicola Centrale, il saluto dei gestori Piero Rebeggiani e Franca Manara
Cronaca 2 Aprile 2019

Il 4 aprile al cinema Centrale di Imola proiezione del film dedicato a Gregoria Giorgi di Casetta di Tiara

Gregoria Giorgi è una ragazza di 15 anni come molte altre, ad eccezione del fatto che è l’unica giovanissima, nonché l’ultima nata, nel piccolo borgo di Casetta di Tiara. Incuriosito dalla sua storia, il regista toscano Francesco Fei l’ha scelta per girare un film-documentario intitolato “La Regina di Casetta”, che verrà proiettato anche a Imola la sera del 4 aprile. Riavvolgiamo però il nastro per capire meglio tutta la storia e partiamo dall’inizio.

Casetta di Tiara è una località dell’Appennino tosco-emiliano in comune di Palazzuolo sul Senio. Sorge nel territorio vicino al corso del rio Rovigo, uno degli affluenti principali del Santerno. Si tratta di un luogo frequentato anche da diversi imolesi per via delle passeggiate che si concludono arrivando alla splendida cascata del torrente. Dove finisce la strada asfaltata si sale fino al borgo, un conglomerato di case raccolte attorno alla chiesa. È uno di quei piccoli nuclei abitati che punteggiano l’Italia quando la si osserva dall’alto e che sono parte fondamentale della sua storia, ma oramai sempre più spopolati a causa dello spostamento dell’uomo verso la città, quella che oggigiorno è definita «civiltà».

A Casetta di Tiara sono solo undici gli abitanti rimasti, di cui Gregoria è la più giovane. «Sono innamoratissima del luogo in cui vivo, Casetta è per me un posto importante, un luogo magico dove tutti possono tornare bambini. Ho sempre vissuto qui e mi trovo bene» racconta la ragazza. Abitando lontano dalla città, la giovane si è presto dovuta rendere indipendente, così sin dall’età di 14 anni ha preso il patentino per poter guidare l’Ape, il suo amico fidato per raggiungere la vicina città di Firenzuola. «La mia giornata tipo inizia intorno alle 6, poi con l’Ape scendo fino a Firenzuola, dove monto su un autobus che mi porta a scuola» spiega Gregoria. Le tempistiche sono lente, dal momento che per arrivare nella vicina città la ragazza impiega circa venti minuti, mentre viaggia con il bus per un’ora e un quarto prima di raggiungere Borgo San Lorenzo, il capoluogo mugellano dove è situato l’istituto professionale alberghiero «Chino Chini» che frequenta.«Sono al secondo anno e il prossimo dovrò scegliere il percorso da seguire. Tra sala e cucina preferisco la seconda, una passione che coltivo da sempre, anche perché i miei genitori gestiscono un ristorante. Mamma e papà poi mi hanno sostenuta quando ero indecisa tra istituto agrario ed alberghiero, rendendosi disponibili a farmi cambiare scuola qualora mi fossi resa conto di non aver compiuto la scelta giusta, un elemento non scontato, e ritengo importante avere il loro appoggio».

Al momento della scelta della scuola superiore Gregoria ha dovuto affrontare un bivio, decidere tra l’alberghiero di Riolo Terme o quello di Borgo San Lorenzo. Alla fine la scelta è ricaduta sulla seconda città, in quanto andare a Riolo significava più tempo in bus e un cambio di linea ad ogni tragitto. «Il percorso è lungo ed è normale che un po’ mi pesi, ma noi che viviamo qui siamo abituati» spiega la giovane. Negli ultimi anni, da metà novembre, dopo il periodo dei marroni fino alla fine di aprile, la famiglia si trasferisce in una casa sulla strada statale perché Gregoria sia più vicina alla scuola. Nel weekend però i tre tornano a Casetta, dal momento che lì si trova il ristorante «Da Sonia» che Leonardo e Sonia, i suoi genitori, gestiscono principalmente nel fine settimana, come racconta la ragazza: «Il locale è aperto in inverno su prenotazione, ma i giorni in cui è più frequentato sono il sabato e la domenica, mentre d’estate è aperto tutta la settimana tranne il mercoledì, dal momento che molta gente viene a Casetta anche per fare passeggiate o per rilassarsi al fiume. Sia mamma che papà lavorano anche nel castagneto, benché l’attività principale rimanga il ristorante».

Quando la ragazza aveva 10 anni il regista Francesco Fei venne a conoscenza di quel piccolo borgo in cui vissero il poeta Dino Campana, di cui ritroviamo alcune poesie nel film, e Sibilla Aleramo, che fu sua compagna. Così Fei si è recato a Casetta e, incontrando Gregoria che portava il pane in tavola al ristorante e chiacchierava con i clienti, le chiese «Tu qui vivi bene?», domanda alla quale la bambina rispose con un fermo «sì». Il paese ha accolto poi quella piacevole sorpresa. «Girare il docufilm è stato un impegno, in quanto ogni mese vi era una settimana o più di riprese, però sono contenta della responsabilità che ha portato con sé quest’esperienza. Il regista inoltre non mi ha mai obbligata a recitare particolari battute, tutto ciò che lo spettatore sente è spontaneo, parte da me» spiega la giovane.

Inizialmente respinto, il progetto venne ripresentato nel 2016, ottenendo l’appoggio economico necessario, principalmente da «Larione 10», «Rai Cinema» e «Toscana Film Commission» per iniziare le riprese, durate da settembre 2016 a settembre 2017. Il prodotto finale è una pellicola della durata di 79 minuti, adatta ad ogni età. Il film-documentario è stato lanciato nel 2018 in anteprima alla 59ª edizione del «Festival dei Popoli» di Firenze dove ha vinto il premio come miglior film italiano «Premio Cinemaitaliano. Info-CG Entertainment». In seguito è uscito ufficialmente a inizio gennaio in due sale cine-matografiche a Firenzuola e poi Firenze, mentre il 4 aprile alle ore 20.30 sarà proiettato per la prima volta a Imola alla sala Bcc in via Emilia 212, gentilmente concessa dalla banca, e l’ingresso sarà gratuito fino all’esaurimento dei 150 posti. All’evento saranno presenti Gregoria, il papà Leonardo, la mamma Sonia e il produttore Alessandro Salaorni. (se.zu.)

Il servizio completo è pubblicato su «sabato sera» del 28 marzo

Nella foto Gregoria Giorgi a bordo della sua Ape

Il 4 aprile al cinema Centrale di Imola proiezione del film dedicato a Gregoria Giorgi di Casetta di Tiara
Cronaca 1 Gennaio 2019

Lo chef Antonio Scaccio di «Affetti & Sapori» cucina per i Vip su yacht in rotta tra Miami, Caraibi ed Europa

«Da sempre ho desiderato viaggiare, l’ho fatto per puro piacere o lavoro, mi sono spostato e ho abitato in tante città, sono un po’ “nomade” in questo, chissà un giorno riconoscerò il posto dove fermarmi…». La voce arriva da Miami, in Florida, e lui è Antonio Scaccio, che a Imola ha gestito fino a pochi mesi fa il locale «Affetti & Sapori Cucina Naturale», nel quartiere Zolino. Proprio la vetrina chiusa del locale e il cartello nel quale si informa la clientela che lo chef è impegnato a bordo di uno yacht, ha stuzzicato la nostra curiosità e ci ha spinti a cercarlo per saperne di più.

Con molta disponibilità Scaccio, cinquantasettenne, autore di libri di cucina vegetariana e vegana, ha accettato di raccontarci la sua esperienza, attualmente a bordo del mega yacht «Utopia4», un 63 metri che appartiene ai miliardari americani J.R. and Loren Ridinger, proprietari di Market America, un incrocio, come loro lo definiscono, tra Amazon e Qvc, tra i più ricchi negli Stati Uniti.

Per lo chef di origine siciliana non è la prima esperienza di questo genere. Per diversi anni ha lavorato sullo yacht di Dolce e Gabbana ed è stato richiesto su altri yacht nel Mediterraneo, così come negli Stati Uniti e nei Caraibi. «Lavorare su una barca non è scontato, servono conoscenze a 360 gradi, praticità, lungimiranza, velocità, attenzioni – racconta -. Con i vip poi è tutto inaspettato ma io cerco di stare sempre un passo avanti a loro, è importante per godere della stima di chi ti paga e acquisire autorevolezza tra chi lavora con me». L’«Utopia4» si sposta tra i Caraibi, le Bahamas, il Nord America e l’Europa, a seconda delle stagioni. I proprietari, che possiedono anche altre barche, amano organizzare eventi importanti con super vip al seguito, occasioni mondane in cui business e divertimento si fondono. Solo per citare alcuni nomi, Scaccio nei giorni scorsi ha cucinato per Eva Longoria, Serena Williams, Jennifer Lopez, Alicia Keys, Justin Bieber…

«Ogni cosa, dalla qualità del cibo al servizio devono essere assolutamente impeccabili». Uno yacht come quello dei Ridinger ha un equipaggio fisso di tredici persone, dal comandante ai marinai, passando per lo chef e i suoi aiutanti. Quando ci sono gli eventi, altri vengono ingaggiati all’occorrenza perché tutto fili alla perfezione, compresi i fuochi d’artificio. «Io sono tra i più “anziani”. Il nostro lavoro è impegnativo dal punto di vista professionale – prosegue Scaccio -. Ci occupiamo della preparazione del cibo, dell’approvvigionamento, della sistemazione di interni ed esterni dello yacht, lo scopo è di far star bene tutti, dai vari guest allo staff».

Una vita che non offre solo vantag-gi. Scaccio confessa che gli mancano «l’affetto della mia compagna, rimasta a Imola» e le amicizie, ma non sa quando tornerà. Inevitabile parlare anche di «Affetti & Sapori». «Ci ho lasciato il cuore – ammette -. Avevo formato diversi aiutanti pensando di affidare loro il locale affinché proseguissero l’attività, ma li ho “persi” per strada per i motivi più vari. E non me la sono sentita di ripartire da zero con altri. Quello che ho costruito a Imola è unico come concept store biologico certificato. La gestione era difficile perché si trattava di un locale con tante proposte diverse ogni giorno: pesce, vegano, cibi per intolleranti, sushi, sashimi, biscotteria, pizza al taglio e pane con farine antiche o lievitazioni naturali da gourmet, pasticceria, paella, il servizio catering».

Scaccio lascia aperta una porta per un suo futuro ritorno: «Mi scrivono in tanti… Per adesso l’attività è ferma, vedremo se ci saranno investitori disposti a fare qualcosa insieme». (m.t.)

L”intervista completa è su «sabato sera» del 20 dicembre

Nella foto sopra: Antonio Scaccio con l”attore e cantante Jamie Foxx

Nelle altre due foto: Scaccio con il resto dell”equipaggio e un suo piatto

Imola

Lo chef Antonio Scaccio di «Affetti & Sapori» cucina per i Vip su yacht in rotta tra Miami, Caraibi ed Europa
Cultura e Spettacoli 14 Novembre 2018

Gianluca Afflitti e la passione per i viaggi che l'ha portato in tutti i continenti: «Sono curioso del mondo»

In un”intervista Jovanotti, parlando dei suoi giri per il mondo, disse che per viaggiare non sono tanto indispensabili i soldi quanto avere il tempo per farlo. Gianluca Afflitti, classe 1967, viaggiatore da sempre, è la dimostrazione che si può partire pur dovendo fare i conti con un lavoro impegnativo come quello del lattoniere.

Afflitti, titolare dell’azienda omonima con il fratello Massimiliano, riesce ad organizzare almeno quattro viaggi all’anno, scegliendo sempre mete particolari, alla ricerca di emozioni e sensazioni nuove, che immortala in fotografie, che gli hanno valso numerosi riconoscimenti. «Sono curioso del mondo, cerco colori, situazioni strane», ci racconta seduto davanti al computer con il quale studia gli itinerari e dove ha già preparato il programma dei viaggi fino al 2021. Noi l’abbiamo incontrato alla vigilia della partenza per l’Australia, l’obiettivo è vedere la migrazione dei granchi rossi a Christmas Island.

Quando hai capito che il viaggio sarebbe stata una costante della tua vita?
«A 16 anni. Nel 1983 in sella ad una Honda Xl 125 sono partito alla volta della Spagna con un gruppo di amici, ho girato tutta la penisola fino ad Alicante. Dormivamo negli allora parador, cercando di vedere gli angoli più particolari del Paese. Fino ai 26 anni la moto è stato il mezzo privilegiato per i miei viaggi, anche se chiaramente la cilindrata è andata aumentando, passando al 250 fino al 750. Dopo gli amici dei primi viaggi, la presenza fissa è sempre stata Elena, la mia compagna, che ha condiviso con me questa passione. Oggi ho una Kawasaki 1500 custom. Ma oggi le mete che mi attirano ora necessitano di un volo aereo…».

Quali mete ricordi più volentieri dei viaggi in sella alla moto?
«Ho girato tanto, tutta Europa tranne la Russia, poi sono andato fino in Kurdistan e sono arrivato a Capo Nord. In Scandinavia ci sono tornato un’altra volta in inverno, senza moto, appositamente per dormire nell’hotel di ghiaccio, una struttura che viene costruita ogni anno, con stanze, sculture, spazi ricavati completamente nel ghiaccio, a Kiruna, la città più settentrionale e fredda della Svezia. Anche il Messico l’ho girato in moto; era il 1999, allora era ancora possibile noleggiare una moto e attraversare tutto il Paese, oggi non sarebbe possibile perché ad ogni passaggio di regione viene chiesto di cambiare il mezzo. In Messico abbiamo anche avuto una piccola avventura mentre eravamo su una strada in mezzo al nulla: la moto mi è andata in riserva e poi si è fermata. Dopo una lunga attesa è passata un’auto, però non erano in grado di aiutarci, così sono salito con loro lasciando Elena da sola a badare alla moto. Arrivati al primo paese, dopo un viaggio di un’ora, non c’era nessun meccanico. Però noto un camioncino scassato e tre uomini seduti attorno al tavolo del bar pieno di birre. A quel punto decido di offrirgli dei soldi per farmi accompagnare con il camion a recuperare la moto. Devo aver dato loro molto di più di quanto fossero abituati, perché ci hanno accompagnato per un bel pezzo, sistemata la moto, per vedere che tutto andasse bene. Più che altro, sono stato fortunato perché Elena c’era ancora… e non mi ha mandato a quel paese. Ripensandoci, forse siamo stati un po’ incoscienti» (r ide).

L’impressione è che in questa passione per il viaggio sia più importante il «muoversi», «l’andare» della destinazione.
«Sicuramente ogni viaggio deve essere itinerante. In passato non prenotavo nulla, l’unica cosa che non cambiava era la meta, poi il percorso poteva variare, se c’erano stimoli interessanti. In Turchia, verso metà degli anni ’90, due romani incontrati per caso mi segnalarono una località che mi incuriosì. Così mi ritrovai con la moto in mezzo agli ovili finché arrivammo ad una caletta sulla Costa Turchese. Un paesino di una decina di case. Quando ho chiesto di cosa vivessero mi spiegarono che ormai erano per lo più allevatori: il pescatore più anziano non usciva ormai più in mare, ma gli sarebbe piaciuto usare ancora la barca. Così mi sono offerto di accompagnarlo e siamo partiti su una specie di chiatta. Al rientro i paesani avevano allestito una tavola in piazza, io ed Elena siamo stati messi ai posti d’onore di quella che è diventata una festa. Questo è il bello del viaggiare, incontrare persone e situazioni insolite, un modo di estraniarsi dalla vita normale».

Quando hai deciso che era ora di cambiare mezzo per viaggiare?
«Quando ho scoperto la subacquea e la fotografia. A quel punto le mete da raggiungere sono diventate tali che era necessario salire su un aereo».

Pensi anche tu che per viaggiare non sia necessario investire una fortuna?
«Se ci si organizza per tempo oggi con Internet si trovano voli a costi accettabili, anche per mete lontane. Ad esempio ad agosto sono stato nella Papua indonesiana passando da Bali. I biglietti li ho acquistati a gennaio per 530 euro. Devo dire che negli ultimi dieci anni, fra viaggi vinti grazie a concorsi fotografici ed altri ai quali partecipo come fotografo esperto, il costo del viaggio è ammortizzato… Certo nei periodi in cui rimango a casa risparmio perché non amo molto andare al cinema e ancora meno al bar. Poi, come dicevo, anche progettare i viaggi per me è un divertimento».

Puoi dire di aver viaggiato in tutto il mondo?
«Sicuramente in tutti i continenti più di una volta, anche se non ancora in tutti i Paesi». (fa.vi.)

L”intervista completa è su «sabato sera» dell”8 novembre

Nelle foto momenti di viaggio di Gianluca Afflitti e della compagna Elena

Gianluca Afflitti e la passione per i viaggi che l'ha portato in tutti i continenti: «Sono curioso del mondo»
Cronaca 28 Ottobre 2018

La testimonianza di Noemi Dalmonte sul medico Denis Mukwege, premio Nobel per la pace 2018

Una domenica mattina di agosto di nove anni fa un collega del Comitato internazionale della Croce Rossa bussò alla mia porta con Malaika tra le braccia, febbricitante e con degli occhi vitrei che ricorderò tutta la vita. Tre mesi prima Malaika aveva avuto la sfortuna di coltivare la terra in una zona molto prossima a combattimenti tra l’esercito congolese e i ribelli Mai Mai. Il marito la ritrovò nuda e quasi in fin di vita nel campo e la portò in un ambulatorio.

Le settimane passavano e Malaika non guariva. Il marito la prese in spalla sino alla Croce Rossa. E fu così che Malaika arrivò a Minembwe, un villaggio negli altopiani del Sud Kivu in Repubblica Democratica del Congo, dove vivevo e lavoravo da marzo ad un programma di lotta contro la violenza di genere per un’organizzazione non governativa. Insieme ad una collega la presi tra le braccia e la portai all’ospedale che appoggiavamo con supporto tecnico e finanziario. Malaika aveva una fistola retto vaginale e una grave infezione; era a rischio di setticemia quando la visitarono. Mi tenne la mano per ore chiedendomi di non lasciarla.

Grazie alle Nazioni Unite riuscii ad evacuarla a Bukavu, all’ospedale di Panzi, in meno di 24 ore. Quando Malaika salì su quell’elicottero dell’Onu era ancora viva e stava per arrivare da quel dottore che «riparava le donne». Ero certa che ce l’avrebbe fatta. Ma Malaika non ce la fece. Così conobbi, per telefono, il dottor Denis Mukwege. Prese il tempo di chiamarmi per annunciarmi il decesso. L’aveva operata non appena arrivata in clinica ma lei non aveva superato la notte.

Mi disse che quello stupro collettivo, estremamente violento, con kalashnikov e pezzi di legno non le aveva distrutto l’apparato riproduttivo, lui aveva tentato di ripararlo con un discreto successo operatorio ma l’infezione era troppo avanzata e c’era persino l’Aids. L’operazione quella volta non fece miracoli. Ma Mukwege ha curato migliaia di Malaika nei suoi vent’anni di servizio a Panzi, l’ospedale di Bukavu, che fondò nel 1999 grazie alla generosità di una missione protestante svedese. Molte ce la fanno, alcune no.

Il 5 ottobre gli è stato conferito il premio Nobel per la Pace 2018 in riconoscimento della sua dedizione e coraggio nel continuare a curare le vittime della guerra congolese e nel continuare a far parlare di quello che succede nel Paese africano.E’ passato quasi un decennio dal giorno in cui ho preso Malaika tra le braccia; io ho continuato a lavorare nelle crisi umanitarie e dal 2016 sono di nuovo in Repubblica Democratica del Congo a dirigere dalla capitale Kinshasa il programma di lotta alla violenza di genere per il Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione (Unfpa), l’agenzia dell’Onu per i diritti sessuali e riproduttivi.

La situazione nel Paese non è cambiata molto dal 2009, ma in Occidente se ne parla sempre di meno, influenzati da una certa stanchezza per questa guerra che sembra senza soluzioni. Nell’est si può dire che perdura dal genocidio in Ruanda del 1994, ma è nel 2017 che il paese ha vissuto la più grave crisi umanitaria della sua storia. Oggi si stima che 13 milioni di persone ne siano toccate e 10,5 milioni hanno bisogno di assistenza. Una crisi seconda sola a quella di Yemen e Siria, con cifre negate dal governo che non facilita la gestione degli aiuti.

Durante la Conferenza dei donatori sulla situazione umanitaria in Repubblica Democratica del Congo ho chiesto agli stati membri delle Nazioni Unite 68 milioni di dollari per quest’anno, ma ad ottobre inoltrato il bilancio è che ne abbiamo meno di un terzo. In Congo, ogni anno si assistono circa 20.000 casi di violenza di genere di cui il 60% circa sono stupri e tra questi una cifra che oscilla tra il 60% e il 10%, secondo le zone, sono stupri di guerra. Una delle peggiori conseguenze mediche sono le fistole, una fessura o lacerazione della parete vaginale o anale che causa perdite di feci e urine continue e di varie entità. E’ chiamata nei villaggi «la malattia della vergogna», perché chi ne soffre è fortemente stigmatizzata, si isola, si nasconde.

In realtà le fistole sono una conseguenza molto più frequente delle gravidanze precoci più che degli stupri. Unfpa stima che circa il 9% delle fistole curate in Congo siano causate da uno stupro, sembra una piccola percentuale ma indica un numero molto grande di persone. Mukwege l’ho ritrovato alla testa dell’ospedale di Panzi a Bukavu. Continua ad offrire servizi ginecologici e di ostetricia sempre migliori ed un eccellente programma di cura delle violenze sessuali. Alterna il lavoro da medico con quello di testimone della tragedia delle donne congolesi in giro per il mondo. (No. Da.)

L”intero articolo è su «sabato sera» del 18 ottobre

Nella foto tratta dal blog di Noemi Dalmonte Tappingdiotima il dottor Denis Mukwege

La testimonianza di Noemi Dalmonte sul medico Denis Mukwege, premio Nobel per la pace 2018
Cultura e Spettacoli 19 Ottobre 2018

Maria Pia Timo a Medicina tra storie di donne di ieri e di oggi e ricette in cucina

Storie di donne e di cucina, storie di luoghi e di ricordi. Storie che diventano universali e attraversano il tempo e le generazioni. Maria Pia Timo porta in scena alla Sala del Suffragio di Medicina sabato 20 ottobre alle 21.15 Doppio brodo. Manuale di una donna imperfetta con cui si apre la rassegna di prosa curata da Eclissidilana. L”attrice faentina, a cui sabato sera è molto legato poiché ha lavorato a lungo nella cooperativa Bacchilega che edita il settimanale, insieme al coautore Roberto Pozzi ha creato uno spettacolo in cui si ride molto e ci si commuove molto, guidati dai sapori di una cucina che è anche cuore delle donne. E, in scena, c”è spazio anche per un tagliere, un matterello e tanta farina…

«È uno spettacolo che amo molto, sono contenta di proporlo spesso in giro, perché sta andando molto bene», afferma l”attrice faentina.

Racconti storie di vita romagnola, interpretando la tipica arzdora, ma in realtà si tratta di ricordi condivisi anche oltre regione.

«Parto da una matrice regionale per assolutizzarla. I racconti delle mamme o delle nonne che porto in scena sono storie raccontatemi da donne romagnole ma comuni a mamme o nonne di altre parti d”Italia: possono cambiare i particolari, invece della piadina avere lo gnocco fritto tanto per dire o invece di raccogliere erbe spontanee in montagna cercare le vongole al mare, ma il sentimento è uguale».

Lo spettacolo parte proprio da vita vissuta, dai racconti di alcune signore che hai conosciuto e intervistato per la tua trasmissione tv La Vespa Teresa e il libro omonimo.

«Sì, c”era tantissimo materiale che non avevamo usato e che si sarebbe disperso e mi piangeva il cuore, perché erano storie coinvolgenti, emozionanti, commoventi, di guerra e difficoltà, di fatica e di unione,per cui io e Roberto Pozzi abbiamo pensato di costruirvi attorno uno spettacolo teatrale che si muovesse in cucina e tra le ricette e che unisse anche dei pezzi contemporanei che parlano dell’oggi, mostrando le differenze tra cosa vuol dire occuparsi della casa e della famiglia oggi o allora con quelle storie. Lo spettacolo diventa così  anche divertente e buffo, fa molto ridere oltre che emozionare».

Si emozionano sia le persone che hanno l”età delle signore di cui parli che le loro nipoti.

«Sì, chi ha vissuto quelle cose in una realtà che poi è solo l”altro ieri ci si riconosce molto. Ma anche i nipoti che risentono i racconti delle nonne o scoprono un modo di vivere diversissimo, lontano eppure che è ancora qui, si sente perché ha impregnato la loro storia. I nipoti sono interessati, mi hanno fermato spesso commossi. Poi, come dicevo, lo spettacolo è divertente ma i racconti danno una matrice malinconica e in alcuni punti in cui si parla della guerra e dei suoi drammi drammatica ho sentito soffiare dei nasi in sala…». (s.f.)

Sabato 20 ottobre, ore 21.15, sala del Suffragio, via Libertà 60. Biglietto 8 euro, ridotto 6. Info e prenotazioni: 333/9434148.

L”articolo completo è sul «sabato sera» in edicola da giovedì 18 ottobre

Nella foto Maria Pia Timo

Maria Pia Timo a Medicina tra storie di donne di ieri e di oggi e ricette in cucina
Cronaca 8 Ottobre 2018

Il viaggio della vita di Alessandro Balducci, dipendente Cefla che ha percorso 6.000 chilometri in moto sulle Ande

Il viaggio della vita con la moto di sempre. Alessandro Balducci, 51enne di Massa Lombarda e impiegato alla Cefla di Imola, è solito fare vacanze diverse dall’idea comune di relax o viaggio. Lui la strada preferisce percorrerla metro dopo metro e sulle due ruote. E dopo mete come Marocco, Tanzania, Sudafrica e Australia, questa estate ha optato per i 6.000 chilometri della Transandina, lungo le cordigliere dall’Ecuador al Cile, attraverso Perù e Bolivia. Un’avventura di 26 giorni che ha intrapreso in gruppo con altri 10 motociclisti grazie al tour operator «Viaggi avventure nel mondo»: per la maggior parte estranei, più un milanese ed uno svizzero conosciuti in avventure precedenti.

«E’ stato davvero il viaggio della vita, una natura incredibile dai colori mai visti e rovine a testimonianza delle antiche culture andine – racconta -. Certo, quando si viaggia gli imprevisti sono sempre dietro l’angolo, per questo è necessario partire con un grande spirito di adattamento in valigia e lasciare a casa le paure».

Partiamo proprio dagli aspetti negativi del viaggio.
«Abbiamo dovuto fronteggiare cambi di percorso e cadute, cose normali quando si viaggia on the road, ma ci sono due aspetti che l’organizzazione poteva affrontare meglio per facilitare il viaggio: la burocrazia per lo sdoganamento dei veicoli da un Paese all’altro che ha richiesto tempo e denaro extra, e i veicoli di supporto al seguito della spedizione che si sono dimostrati inadeguati al trasporto delle due moto che nel corso del viaggio si sono rotte, tra le quali proprio la mia. Ma con spirito di adattamento e rimboccandoci le maniche abbiamo risolto ogni difficoltà e il bilancio del viaggio è straordinario».

Con che mezzo sei partito?
«Ho lasciato in garage la moto da strada e ovviamente ho scelto l’altra, una Ktm 690. L’ho spedita in nave due settimane prima di prendere il volo per Guayaquil, in Ecuador, e l’ho imbarcata nuovamente prima di lasciare il Sudamerica. Arriverà a fine ottobre e dovrò risolvere il problema elettronico che l’ha messa ko e quindi immatricolarla di nuovo, perché in uno dei tanti off-road ho perso la targa».

Come hai proseguito il viaggio senza moto?
«Il coordinatore del viaggio è caduto e si è fatto male, non poteva più guidare e quindi ha proseguito sul furgoncino di servizio che seguiva la spedizione, caricando anche la propria moto. Quando, in seguito, ho dovuto caricare la mia, mi ha fatto usare la sua. Una sfortuna per lui, una fortuna per me: le carrettiere sterrate sud-americane sono fantastiche, non percorrerle su due ruote sarebbe stato il peccato più grande».

Che tipo di «off-road» avete fatto?
«Abbiamo guidato su qualunque tipo di fondo, dalla sabbia, al ghiaino, alle pietrine. Il deserto in Bolivia, chiamato Salar de Uyuni, è stato uno dei tratti più divertenti: una distesa immensa di sale solido, come asfalto grezzo e irregolare, dove si può fare davvero qualunque cosa con la moto. Un’esperienza impagabile». (mi.mo.)

L”intervista completa è su «sabato sera» del 4 ottobre

Nella foto Alessandro Balducci

Il viaggio della vita di Alessandro Balducci, dipendente Cefla che ha percorso 6.000 chilometri in moto sulle Ande
Sport 1 Agosto 2018

Calcio, cinque giovani ambizioni arrivati all'Imolese e cinque storie tutte da raccontare

Tre ragazzi del ’99 e due millennials. Giannini, Rinaldi, Ciofi, De Gregorio, Patrignani: cinque giovani (il sesto, Sarini, è arrivato in anticipo rispetto agli altri, come secondo acquisto di mercato), cinque storie diverse con la voglia di sfondare nel calcio come denominatore comune, così come per tutti è stato colpo di fulmine con il «mondo Imolese».

Giuseppe Giannini. «Sì, alla lontana siamo cugini di secondo o terzo grado». Con un nome e cognome così, non si poteva non chiedergli se ci fosse eventuale parentela con il «Principe» della Roma anni ’80 e ’90. «Mio babbo si chiama Francesco, mio nonno Giuseppe: è la tradizione di famiglia che portiamo avanti. Non ho guardato alla categoria nella quale l’Imolese potrebbe giocare – ammette la mezzala classe 2000, che arriva in prestito dal Tau Altopascio -, anche se, ovviamente, per noi giovani cambierà tanto in caso di professionismo. Spero che Imola possa essere il trampolino di lancio, i presupposti per fare bene ci sono tutti e farò il massimo per sfruttare questa occasione».

Andrea Rinaldi. Il «post» con il quale su Facebook ha salutato Zingonia ed il «mondo Atalanta» fa capire come questa mezzala del 2000 sia già grande quanto a sensibilità e sentimenti. «Sono rimasto affascinato dal modo di lavorare dell’Imolese, dalla passione e dalla serietà che mi hanno subito trasmesso dal primo incontro: sono ambiziosi come me – parola del prodotto del vivaio neroblù -, non potevo trovare di meglio. In questo momento dobbiamo vivere il discorso relativo alla categoria in maniera serena, per noi giovani sarà formativa sia la D che la C, visto che sarà il nostro primo anno fra i grandi».

Raffaele De Gregorio. Lui l’Imolese l’ha già incontrata, visto che il terzino sinistro classe ’99 era titolare di quell’Adriese che 2 anni fa, vincendo al Galli, negò di fatto ai rossoblù di Baldini la promozione alla categoria superiore. «Ricordo quella partita e ho capito cosa può aver provato l’Imolese in quella stagione – ammette De Gregorio, che arriva in prestito dalla società campana del Sant’Agnello – visto che con il Matelica l’ho vissuto quest’anno, quando per noi la serie C è sfumata all’ultima giornata. Ad Imola ho trovato una società solida e in ascesa, come dimostra quello che ho visto al Bacchilega, che è un altro mondo rispetto alle mie precedenti esperienze».

Rocco Patrignani. Javier Zanetti come modello, con i primi calci da attaccante che arretra poi sulla linea difensiva, strizzando però l’occhio alle sgroppate sulla fascia destra. «In questi anni, prima alla Fiorentina e poi al Perugia, ho ricoperto sia il ruolo di centrale difensivo che di esterno a destra. Appena è arrivata la chiamata dell’Imolese non ci ho pensato due volte – conferma l’ex perugino -. La prima chiacchierata con il direttore sportivo Filippo Ghinassi mi ha confermato le sensazioni che avevo provato vedendo il Bacchilega, ovvero di una società ambiziosa e seria che mi permetterà di misurarmi in un campionato con giocatori Senior ben diverso da quelli affrontati finora, come ho già visto dall’intensità dei primi allenamenti».

Andrea Ciofi. Quella foto, correndo al fianco di Totti a Trigoria; quei 30 minuti giocati contro la Chapecoense all’Olimpico la scorsa estate; la presenza in Uefa Youth League (la Champions dei giovani) contro il Qarabaq: 3 istantanee difficili da dimenticare. «La maglia della partita con la Chapecoense è lì incorniciata in camera – ammette il difensore nato a Marino -, per una serata che, da tifoso romanista, è difficile da dimenticare. Quando mi ha chiamato l’Imolese non c’è stato molto da riflettere, visto che è l’occasione giusta che cercavo: le tante telefonate che ci sono state con Ghinassi hanno poi trovato conferma non appena ho visto il centro Bacchilega e come si lavora qua».

an.mir.

L”articolo completo su «sabato sera» del 26 luglio.

Nella foto grande (Isolapress): il difensore Raffaele De Gregorio. Nei riquadri, dall”alto verso il basso: Giuseppe Giannini, Andrea Rinaldi, Rocco Patrignani e Andrea Ciofi

Calcio, cinque giovani ambizioni arrivati all'Imolese e cinque storie tutte da raccontare
Cronaca 29 Luglio 2018

Foto e storie, quando l'imolese Riccardo Scheda incontrò Helmut Haller sulla spiaggia di Rimini

Questa è la storia di un’amicizia lunga lo spazio di una vacanza sulla riviera romagnola, fra un ragazzo imolese qualunque ed Helmut Haller, consacrato campione del calcio tedesco, che conobbe le sue primavere migliori proprio in Italia. Con un’appendice emozio-nante vissuta un pomeriggio d’autunno sull’erba dello stadio di Bologna. Dunque, per cominciare, immagi-natevi catapultati nella Rimini felliniana degli anni Sessanta. Quella che ispirò il grande maestro, spingendolo a realizzare i suoi capolavori cinematografici. La Rimini della Mototemporada, delle spiagge ancora incontaminate, delle romantiche luci che illuminavano le interminabili notti in riva al mare. Quella dei play-boy ruspanti, delle seducenti balere e delle calde serate sotto le stelle, trappole perfette per le incaute turiste del nord Europa. Quella Rimini, che oggi non c’è più, affascinava pure i personaggi del calcio, che al tempo preferivano ancora trascorrere le vacanze estive a queste latitudini. E incontri oggi impossibili allora non lo erano.

A Riccardo Scheda, che a Imola è più noto come tennista (tuttora in attività) del circolo Cacciari, che come ex giocatore dell’Imolese, capitò di farlo, l’incontro il cui ricordo l’avrebbe accompagnato per il resto della vita. Con Haller, appunto, uno che poi ha lasciato un segno indelebile nel calcio italiano; tre scudetti vinti, uno col Bologna e due con la Juventus. E a livello internazionale una finale ai mondiali d’Inghilterra del 1966 con la maglia della Nazionale tedesca, nel leggendario stadio londinese di Wembley. Riccardo allora aveva 18 anni, e da bravo ragazzo le vacanze le passava ancora insieme ai genitori a Rimini, all’Hotel Piccadilly. «Era l’estate del 1962, ed Haller, che di anni ne aveva 23, era stato appena acquistato dal Bologna – ha iniziato così Scheda a riavvolgere il nastro dei ricordi – e prima di andare in ritiro coi rossoblu pensò bene di respirare un po’ di aria romagnola, decidendo di passare qualche giorno di luglio a Rimini. Il caso volle che scegliesse proprio il nostro albergo, e anche lo stesso stabilimento balneare».

a.d.p.

L”articolo completo su «sabato sera» del 26 luglio.

Nella foto: da sinistra un calciatore delle giovanili del Bologna, Helmut Haller, Riccardo Scheda e, seduto, Franco Noè

Foto e storie, quando l'imolese Riccardo Scheda incontrò Helmut Haller sulla spiaggia di Rimini

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