Il medicinese Stefano Romualdi racconta la sua avventura americana in mountain bike al «Great Divide»
A due passi dal cimitero c’è la carrozzeria di Stefano Romualdi, ma la cosa più curiosa è il nome della strada. Via della Resistenza. Sì, lo sappiamo che si riferisce a cose ben più serie, ma un ragazzo che ogni giorno lavora sotto una simile esortazione, forse si è fatto sedurre, anche inconsciamente. La «resistenza», quella con la «erre» minuscola, è una parte fondante della sua vita da 38enne in gran forma e lo ha dimostrato in giugno, quando è stato l’unico italiano a partecipare e a concludere «The great divide», 2.800 miglia (cioè 4.500 chilometri) in mountain bike, fermandosi solo il tempo necessario per rifocillarsi e dormicchiare.
Ha impiegato 18 giorni, 15 ore e 2 minuti per segare in due il nord America da nord a sud, partendo venerdì 8 giugno da Banff, in Canada e arrivando mercoledì 27 giugno ad Antelope Wells, nel New Mexico. Passando dal ghiaccio fino al sole più cocente in meno di tre settimane, tra l’altro piazzandosi al 9º posto, nonostante fosse la sua prima esperienza in un percorso che, tanto per rendersene conto, è di oltre 1.000 chilometri più lungo del Tour de France o del Giro d’Italia. «Vorrei che qualche ragazzo giovane iniziasse ad appassionarsi a questa disciplina così affascinante – ha detto Romualdi -. Bicicletta, zaino e via: non c’è mica bisogno di andare negli Stati Uniti per fare queste cose».
Come ci si prepara per una sfacchinata di 4.500 chilometri?
«Soprattutto a livello articolare. Corsa, palestra e, ovviamente, bicicletta. Il vero obiettivo non era quello di andare forte, bensì di arrivare alla fine. Dalla primavera in poi ho fatto qualche pedalata notturna perché, insieme al mio preparatore, avevamo deciso di scombussolare un po’ il metabolismo. Una volta, ad esempio, sono andato fino a Torino per vedere giocare mio figlio…».
Il bagaglio ridotto al minimo è un obbligo, per chi se lo deve trascinare lungo la strada.
«Abbiamo imballato la bicicletta con le borse da telaio, mentre i vestiti del viaggio li ho buttati via dopo l’atterraggio. Bisogna limitarsi all’essenziale, come il sacco a pelo, il materassino, il bivy bag e lo spazzolino da denti. Come abbigliamento avevo una tenuta estiva da ciclismo, due divise antiacqua, una maglia termica a maniche lunghe, guanti e scarpette».
Non c’è una partenza vera e propria, giusto?
«L’appuntamento era alle 8 di mattina di venerdì 8 giugno, circa 140 atleti, ma in realtà ognuno inizia a pedalare quando vuole, un po’ come nel Cammino di Santiago. Alla fine siamo arrivati in una sessantina».
C’è un metronomo interno che scandisce le tappe?
«A parte la stanchezza, le due variabili fondamentali sono l’acqua e il cibo. Bisogna essere attrezzati a percorrere 300 chilometri nel nulla e appena si trova un luogo di ristoro non si può ignorare. Alcune volte mi sono addormentato alle 7 di sera e sono ripartito 3 ore dopo. Non sapendo l’inglese, in alcuni casi mi sono fatto sfuggire dei punti di rifornimento gestiti da guardie forestali, oppure dei pozzi nel deserto. Insomma, ho pagato l’ingenuità del principiante».
Come ti alimentavi?
«Coi burritos surgelati: fagioli e patate, oppure carne e patate. Infilavo il sacchetto nella schiena e dopo un po’ di microonde corporeo erano pronti da mangiare. Cercavo di evitare con cura tutte quelle salse che gli americani cospargono ovunque».
Dal gelo canadese ai 40 gradi del deserto. In mezzo, qualche colpo di sfortuna non poteva mancare.
«La prima foratura l’ho avuta circa a metà percorso. Mi sentivo bene, stavo proseguendo assieme ad un ragazzo belga, ma ci siamo dovuti dividere. Ho atteso l’apertura di un negozio specializzato, ho rimesso a posto la bici ma due giorni dopo ho tagliato nuovamente il copertone, di notte, su un terreno ghiaiato. Nonostante il faro, che fa luce come un’automobile, non mi sono reso conto di come sia successo».
Entrare tra i primi 10 all’esordio è stata l’impresa dentro l’impresa.
«Come ho detto, siamo partiti in 140, quindi non è male. Quelli che sono arrivati davanti a me? Di sicuro vanno mediamente più forte, ma conta tanto anche l’organizzazione. Se io impiegavo 2 ore per trovare un motel, ho visto gente col panino in una mano, il Gps nell’altra e il telefono davanti per le previsioni meteo. Tutto tempo risparmiato».
Hai già pensato di riprovarci?
«La tentazione di riprovarci ovviamente c’è, però occorre tempo, minimo 25 giorni, e una organizzazione capillare. Ma ci sono anche altre sfide da raccogliere. Mi piacerebbe andare a fare un trail in Scozia e mi sono informato pure per il Marocco, anche se non mi convince l’organizzazione».
p.z.
L”intervista completa e tante belle immagini su «sabato sera» del 6 settembre.
Nella foto: Stefano Romualdi sul percorso